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30 giugno 1960: Genova dice no al fascismo

100.000 genovesi scendono in piazza per manifestare contro un terribile affronto

Il Movimento Sociale Italiano (MSI), erede del fascismo, sceglie di tenere il sesto congresso del partito a Genova il 2,3,4 luglio. I fascisti dovrebbero riunirsi nel Teatro Margherita, non lontano dal Sacrario dei Caduti della Resistenza. Genova, città Medaglia d’oro al Valore Militare, non può sopportare in silenzio.

Già il 2 giugno comincia a diffondersi il malcontento, alimentato dal discorso tenuto per la festa della Repubblica a Lumarzo (GE) dal Senatore Umberto Terracini, antifascista storico. Le associazioni antifasciste si organizzano per impedire il congresso. A peggiorare la situazione, i missini designano come Presidente onorario del congresso Carlo Emanuele Basile, ex-prefetto della provincia di Genova durante l’occupazione fascista. Soprannominato il boia, aveva ordinato il 16 giugno 1944 la deportazione in Germania di quasi 1500 operai genovesi, colpevoli di aver scioperato per i loro diritti.

Il comizio di Pertini

30 giugno
Fonte: stampacritica.org

Il 28 giugno il Partito Comunista (PCI), Socialista (PSI), Social Democratico (PSDI), Repubblicano (PRI) e Radicale insieme alle organizzazione sindacali unitarie indicono un comizio in Piazza della Vittoria. A parlare è Sandro Pertini, che da allora a Genova sarà ricordato come “brichetto”, il fiammifero, perché con le sue parole ha infiammato i 30.000 presenti. A negare il consenso al congresso sono

i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della Casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori.

Perché la scelta di Genova non era altro che una provocazione, “per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza”.

Per il 30 giugno la Camera del Lavoro proclama uno sciopero generale in tutta la provincia, dalle 14 alle 20. Il Presidente dell’ANPI Giorgio Gimelli invita i partigiani a scendere tutti in piazza, raccomandando di farlo “A mani vuote”. Le autorità in risposta mettono in campo un imponente schieramento per pattugliare le vie cittadine. Centinaia di uomini in assetto da combattimento, tra cui anche alcuni reparti della Celere padovana, conosciuta in quegli anni per la particolare preparazione anti-guerriglia e i modi violenti.

Il 30 giugno 1960 in centomila scendono in piazza per partecipare al corteo e dire no alla minaccia fascista. Non solo ex partigiani e comunisti, ma tanti lavoratori: i tranvieri, gli operai delle grandi fabbriche e  soprattutto i portuali, rimasti impressi per il gancio, il loro strumento di lavoro, attaccato ai pantaloni. Accanto a loro gli intellettuali, perché anche le università e i docenti vogliono manifestare il loro dissenso. In piazza spiccano le magliette a strisce, allora di moda, dei giovani, coloro che per l’età non hanno potuto partecipare alla Resistenza, ma che  hanno respirato fin da bambini l’antifascismo genovese. Proprio la massiccia presenza giovanile è il segno di un’Italia che vuole cambiare, un’Italia che è uscita distrutta dal dopoguerra e che, tra le difficoltà, si avvia al boom economico.

30 giugno
Fonte: genova24.it

Il 30 giugno e l’inizio degli scontri

Il corteo finisce in modo pacifico, senza alcun disordine. Tornando indietro verso casa, però, molti si fermano in piazza De Ferrari, forse per rinfrescarsi alla fontana in una giornata particolarmente calda. I manifestanti intonano inni antifascisti e rivolgono fischi alle forze dell’ordine. In poco tempo la situazione precipita: la camionetta con l’idrante entra in azione, l’aria diventa irrespirabile a causa dei lacrimogeni, i mezzi della polizia si mettono in moto creando un carosello attorno alla fontana. Lo scopo è allontanare la folla, inizialmente con successo, ma presto i giovani tornano dai vicoli e, armati di mattoni e assi di legno presi da un cantiere, reagiscono. Il capo della celere viene immerso nell’acqua della fontana; alcune camionette prendono fuoco.

Gli scontri continuano fino a sera finché l’ANPI, messasi d’accordo con la polizia, invita alla calma e poco a poco le persone si allontanano. La sera stessa il segretario della Camera del Lavoro, indipendentemente dal completo successo della giornata di sciopero, ne proclama un secondo, questa volto di 24 ore, fissato per il successivo sabato 2 luglio, giorno in cui avrebbe dovuto cominciare il congresso. Il rischio è troppo alto, per cui la prefettura di Genova cerca un compromesso, spostando la sede del congresso dal Teatro Margherita al Teatro Ambra di Nervi. Ma né l’ANPI né il MSI accettano: i neofascisti sono costretti a rinunciare alla città per il loro congresso. A Genova il fascismo non è passato.

Il prezzo da pagare per la vittoria

Genova esce vincitrice dagli scontri, ma ha anche un prezzo da pagare. Gli imputati per la manifestazione del 30 giugno saranno 43: 36 a piede libero, 7 detenuti. Dopo molti ritardi e il trasferimento del processo a Roma, il 20 luglio 1962 41 di loro verranno condannati a pene gravissime fino a 4 anni e 5 mesi di reclusione.

L’ANPI si prodigherà in tutti i modi affinché nulla manchi agli imputati e ai reclusi: raccogliendo fondi, consegnando alimenti, rimborsando infine le ingenti spese processuali.

30 giugno 1960: le ragioni politiche

A distanza di 15 anni dalla Liberazione il fascismo stava rialzando la testa, in un momento di crisi delle sinistre e del fronte antifascista, non più unitario. Il MSI, l’unico partito che si è rifiutato di firmare sulla Costituzione, svolgeva un ruolo importante nel mantenere in piedi il governo, un monocolore democristiano. L’8 aprile il Presidente del Consiglio aveva ottenuto la fiducia alla Camera con soli 300 voti favorevoli contro 293 contrari. Decisivi si erano rivelati i 24 voti del Movimento Sociale.  I fascisti erano di nuovo determinanti nella vita politica e la DC si era spaccata: Giulio Pastore, Giorgo Bo e Fiorentino Sullo si erano dimessi. Tambroni è costretto a dimettersi, ma, dopo il tentativo fallito di un governo di centrosinistra di Fanfani, torna. Il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi rifiuta le dimissioni di Tambroni che, con una forzatura costituzionale, considera valido il voto di fiducia dell’8 aprile e chiede la fiducia solo al Senato. Ancora una volta la fiducia è ottenuta grazie ai voti del MSI. La DC deve ricompensare l’alleato politico, per cui accetta la proposta del Movimento Sociale di tenere il congresso a Genova.

I fascisti non si aspettavano probabilmente una tale risposta popolare. Tutti i genovesi cercano di impedire il congresso, non solo scendendo in piazza. Il 1 luglio i missini partono per Genova, ma pochi scendono dal treno: molti sono costretti da partigiani, portuali e operai a tornare indietro o andarsene da un’altra parte. Alcuni riescono a entrare in città, ma sicuramente non ne manterranno un bel ricordo. I taxisti, avendo avuto dall’ANPI l’elenco degli hotel prenotati dal MSI, prendono i percorsi più tortuosi, raccontando di come il centro sia bloccato dai comunisti. Infine lasciano gli sgraditi ospiti a piedi sotto al sole, con la valigia in mano, nel posto più lontano e isolato della città. Ma la corsa è gratuita. Anche chi arriva negli alberghi deve sopportare numerosi disagi, come i facchini che perdono le valigie o i camerieri sbadati che rovesciano bicchieri di vino su tovaglie e camicie.

Annullato il congresso, i missini lasciano la città il giorno dopo, scortati dalla polizia.

Dopo il 30 giugno altre città protestano contro il governo

Tambroni rischia di perdere l’appoggio del MSI; la stampa nazionale lo ritiene incapace di ristabilire l’ordine pubblico: ciò spiega la linea dura adottata dal governo nei giorni successivi. Nuovi scioperi generali vengono indetti a Milano, Livorno, Ferrara. Il 6 luglio i carabinieri a cavallo caricano un corteo di deputati e partigiani a Porta San Paolo a Roma. Il 7 luglio è una strage a Reggio Emilia, dove vengono uccisi Marino Serri, Afro Tondelli, Emilio Reverberi, Lauro Farioli e Ovidio Franchi, tutti operai e tutti iscritti al PCI.

I poliziotti sparano in tutto 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola. Resteranno impuniti, ma il ministero dell’Interno sarà condannato a pagare i risarcimenti ai familiari delle vittime.

Altre sei persone vengono uccise durante varie manifestazioni antifasciste in Sicilia, innestata anche da ragioni economiche; a Licata, Vincenzo Napoli; a Catania, Salvatore Novembre, 20 anni, stordito a manganellate e finito con tre colpi di pistola alla testa, a Palermo, Andrea Congitano e Francesco Vella, anche loro prima feriti e poi finiti con un colpo alla nuca. Sempre a Palermo è uccisa con un colpo a bruciapelo sulla soglia di casa Rosa La Barbera, mentre è fucilato in piazza Giuseppe Malleo, 16 anni.

Le conseguenze politiche del 30 giugno

Il 30 giugno di Genova ha dato il via agli scontri nelle altre città italiane. Tambroni, a causa delle violenze perpetrate contro i manifestanti, il 19 luglio è costretto a dimettersi e la DC si dirige con prudenza verso sinistra. Fanfani ritorna e parla di un “governo di restaurazione democratica”, sostenuto in Parlamento con l’appoggio esterno dei socialisti: il primo passo verso l’alleanza di centrosinistra. Comincia così una stagione che per l’Italia durerà più di 30 anni.

Fonti: 30 giugno 1960. La rivolta di Genova nelle parole di chi c’era, A. Benna e L. Compagnino, Fratelli Frilli Editori;

Lanterna rossa. I comunisti a Genova (1943-19991), Marco Peschiera e Enrico Baiardo, Erga edizioni;

Volo libero sul 30 giugno 1960 a Genova, Franco Monteverde, Genova: Redazione;

Il contributo del movimento operaio genovese allo sviluppo socio-economico e alla democrazia: 150 anni di storia. Atti del convegno svoltosi a Genova il 29 e 30 settembre 2004, Nicolò Bonacasa, Coedit.

 

Camilla Gaggero